sabato 26 maggio 2012

Stato di diritto e potere - Il termometro che misura la libertà

Testo di un articolo apparso sulla rivista Sei in Valle - http://www.seiinvalle.it - che mi pare di grande interesse e spunto di riflessione. L'autore non è per nulla amante di blog e social network, gli ho "estorto" il testo con una scusa e credo che non farà salti di gioia se venisse a sapere che ne ho fatto un post di un blog. I concetti che esprime mi sembrano però più attuali che mai, per questo corro il rischio dei suoi fulmini. Buona lettura!!

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Chi di noi non ha in cuor suo mandato una trucida maledizione al vigile urbano che gli ha appioppato una multa perché ha parcheggiato dove c’è il cartello di divieto di sosta? In quel momento pensiamo “che bello se non esistessero il vigile urbano ed il codice della strada”. Sbollita la grassa arrabbiatura, a mente fredda, ci rendiamo conto che la circolazione stradale diverrebbe immediatamente difficile, pericolosa ed infine impossibile.
Divertiamoci ora con il lessico giovanilistico e gridiamo a pieni polmoni: “non vogliamo più il codice penale, i Caramba e la Pula, così possiamo imbrattare il sottopasso della stazione e ci rolliamo una canna in santa pace ai giardinetti”. Anche qui, esaurita la sbruffonata da adolescenti con l’acne, ci accorgiamo che se fosse così, ogni individuo sarebbe, se lo volesse, libero di rubare, uccidere e stuprare senza essere punito. La nostra società sarebbe vittima di una duplice spinta alla disgregazione. Innanzitutto, ognuno di noi sarebbe libero di pensare “se il mio vicino ruba, uccide e stupra e non lo puniscono, allora lo faccio pure io”, agendo poi di conseguenza. In seconda battuta, una società incapace di tutelare coloro che sono vittima del crimine e dei comportamenti devianti sarebbe una sorta di “giungla” dove a farla da padrone sarebbero i più forti e prepotenti. E chi volesse giustizia dovrebbe ricorrere a vendetta e legge del taglione, avviando interminabili e sanguinose faide.
Nessuna società si sviluppa in armonia senza regole e senza istituzioni che le fanno rispettare, sanzionando eventuali trasgressori. L’anarchia è un’utopia che può affascinare a livello teorico ma è foriera, a livello pratico, di enormi turbamenti della vita sociale.  Quindi: assenza di potere ad autorità uguale negazione di ogni forma di vivere civile.
Il punto non è quindi “potere sì o no” ma “uso corretto del potere”, ovvero “stato di diritto”. Un filo rosso lega l’evoluzione di molte società: è la creazione di regole tali da limitare gli arbitri e gli abusi delle autorità sui cittadini. In uno stato di diritto si crede che la libertà sia un valore supremo da tutelare e ci si munisce di strumenti giuridici che perseguono quel fine. I pilastri giuridici sono essenzialmente tre: la costituzione, il diritto processuale penale e le norme che disciplinano l’operato degli organi di polizia.  Ai giorni nostri, nelle grandi democrazie, queste regole sono formalizzate, scritte nei minimi dettagli e contenute in costituzioni formali e codici.
È però interessante un breve excursus storico per conoscere le prime forme embrionali, di certo imperfette ma assai importanti, di queste norme, che possiamo chiamare “prove tecniche di stato di diritto e di tutela delle libertà”. Il 12 giugno 1215 il re d’Inghilterra Giovanni Senzaterra fu costretto, in cambio della rinnovata obbedienza dei suoi baroni, ad una serie di concessioni, contenute nella “Magna Charta”. Tra i fondamentali contenuti: la garanzia, di non poter essere imprigionati senza prima aver sostenuto un regolare processo, il principio di proporzionalità della pena rispetto al reato commesso, il principio della legittima resistenza all'oppressione di un governo ingiusto, l'integrità e libertà della Chiesa.  
Nel 1679 il parlamento inglese emana lo Habeas Corpus Act. Si definisce “Habeas Corpus (in latino "che tu abbia il corpo") l'ordine emesso da un giudice di portare un prigioniero al proprio cospetto. Tale provvedimento giudiziario stabilisce il diritto di una persona di ricorrere al giudice per difendersi dall'arresto illegittimo, proprio o di un altro individuo. L’Habeas Corpus è stato, ed è tutt’oggi, un asse portante nella salvaguardia della libertà individuale contro l'azione arbitraria dello stato. Sancisce infatti un principio fondamentale: la limitazione della libertà personale non può basarsi solo su di un provvedimento di polizia, vale a dire un atto amministrativo e di imperio del governo, ma dev’essere valutata da un giudice, che può convalidare o meno il provvedimento restrittivo. Nell’ordinamento italiano attuale il diritto di Habeas Corpus è riconosciuto dal Codice di procedura penale (tramite gli istituti del riesame o appello e della convalida dell'arresto) e dalla Costituzione.
Sempre il parlamento inglese, nel 1689, approva il “Bill of rights”, senza dubbio un’architrave del sistema costituzionale del Regno Unito. Tra l’altro, erano previsti: la libertà di parola e discussione in Parlamento, libere elezioni per il Parlamento, il divieto per il re di perseguitare i suoi sudditi per motivi religiosi. Con il Bill of rights finalmente la storia si curva, per imboccare la strada che trasformerà i sudditi in cittadini, rendendoli titolari di diritti e di libertà garantiti.
Il 26 agosto del 1789, sei settimane dopo la presa della Bastiglia, viene emanata la “Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino”, un testo giuridico che ha ispirato molte altre costituzioni ed ha contribuito a diffondere in tutta Europa i valori dell’89. A livello di principi supremi, si completa e consolida in modo irreversibile la trasformazione dell’uomo comune da suddito (oggetto del diritto) in cittadino (soggetto attivo di diritto). Per questo motivo, ancora oggi, si parla di “magistero francese”.
In primis è solennemente enunciato il principio di uguaglianza tra tutti gli esseri umani, seguito dall'elencazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell'uomo: libertà della persona, della proprietà, della sicurezza e resistenza all'oppressione. È poi statuito il principio di sovranità democratica, in forza del quale "il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione". Oggi sembra scontato, a quel tempo assai meno, in quanto i sovrani, in forza degli assunti filosofici e giuridici dell'Ancien Regime, regnavano per diritto divino. Il rapporto tra stato e cittadino è ormai delineato: la legge penale non può più essere retroattiva, deve essere determinata in modo univoco e sottratta alle interferenze del potere esecutivo. Non solo, è stabilito l'altrettanto fondamentale principio della presunzione di innocenza dell'imputato. Sono poi dichiarate le libertà di opinione, di espressione e di culto, stabilendo in tal modo non solo la libertà del cittadino ma anche la laicità ed aconfessionalità dello stato. Grande civiltà giuridica risiede anche nel principio tale per cui tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva (senza più esenzioni dal pagamento delle imposte per il clero ed i nobili).
Fondamentale è anche il superamento dell’antica suddivisione nei 3 Stati,  garantendo a tutti i cittadini il diritto di ricoprire cariche pubbliche.
È di lampante ed imprescindibile evidenza che i quattro atti giuridici sopra illustrati sommariamente non sono “documenti polverosi” poiché è anche grazie ad essi se oggi abbiamo la nostra Costituzione repubblicana e, superando i confini nazionali, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
Stato di diritto significa “garantismo”. Per questo, il nostro sistema giudiziario si fonda su alcuni principi basilari, tutti a tutela di chi è sottoposto ad indagine penale. Innanzitutto l’imputato è ritenuto innocente, e come tale va trattato, sino a condanna definitiva.
La previsione dei tre gradi di giudizio consente di rimediare ad eventuali errori giudiziari.
Le disposizioni che regolamentano la formazione e l’ammissione degli elementi probatori in giudizio fanno sì che per condannare qualcuno non solo servono le prove, ma queste devono essere raccolte con modalità ben precise e codificate dalla legge.
Altro principio fondamentale è “in dubio pro reo”, ovvero se le prove emerse a carico dell’imputato non dimostrano in pieno la sua colpevolezza non lo si può condannare.
La revisione del processo può essere chiesta dal condannato se, una volta passata la sentenza in giudicato, emergono elementi a sua totale o parziale discolpa. Per contro, non può esservi revisione a sfavore di chi è stato prosciolto (ovvero, a fronte di un’assoluzione passata in giudicato, non è possibile processare nuovamente e condannare l’ex imputato, anche se emergessero pesanti prove di colpevolezza, ivi compresa la sua confessione).
La detenzione in attesa di giudizio, comunque disposta dal giudice in forza del principio di Habeas Corpus, è possibile solo in determinati casi (rischio di reiterazione del reato, pericolo di fuga o possibile inquinamento delle prove).
Garantismo è oggi una parola usata ed abusata. Chiariamolo subito: garantismo significa che il cittadino ha una serie precisa di diritti quando è sottoposto a procedimento penale, non che si possono contestare la legittimità del giudice e del processo. Del resto, è la Costituzione a stabilire che “nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge” (art. 25). Comunque, sempre a tutela dell’imputato, è presente nell’ordinamento l’istituto della “legittima suspicione”, in forza del quale è possibile, ove ricorrano certi presupposti, richiedere la ricusazione del giudice od addirittura il trasferimento del processo presso altra sede giudiziaria. Il nostro sistema giudiziario evidenzia una serie di malfunzionamenti, cui si deve assolutamente porre mano ma non manca certo di garantismo. Non vi è infatti alcun dubbio circa il fatto che nell’ordinamento penale italiano siano rispettati i seguenti requisiti: nessuna pena senza reato (cd. retributività della pena); nessun crimine senza legge (principio di legalità); nessuna legge penale senza necessità (principio di economia del diritto penale); nessuna necessità della legge penale senza lesione (principio di offensività); nessuna lesione senza azione (principio di esteriorità dell’azione penale); nessuna azione senza colpa (principio di colpevolezza); nessuna colpa senza processo (principio di giurisdizionalità); nessun processo senza accusa (principio accusatorio); nessuna accusa senza prova (principio dell’onere della prova); nessuna prova senza difesa (principio del contraddittorio).
Se la giustizia non funziona, o funziona male, è un problema di uomini, di risorse ed organizzazione degli uffici giudiziari. Ed è a questi aspetti che si deve porre mano, non agli strumenti giuridici. I più autorevoli conoscitori della dottrina giuridica italiana non si stancano di ribadire che i codici sono mirabili tanto nell’architettura quanto nel funzionamento e non occorre porvi mano con modifiche normative estemporanee. Sono orologi svizzeri di cui non bisogna alterare i meccanismi inserendo bulloni da ferrovia.
Se mancasse il garantismo, i processi penali si concluderebbero tutti con la condanna dell’imputato ed i magistrati giudicanti si risparmierebbero ogni fatica nel motivare le sentenze, basterebbe loro infatti un semplice “copia - incolla” della requisitoria del pubblico ministero. Ma storia e cronaca dimostrano che non è così.
I nostri media abbondano di notizie di cronaca giudiziaria, spesso riferita a fatti di sangue che creano forte sconcerto nell’opinione pubblica. Assistiamo perciò a dibattiti dove persone, del tutto prive della benché minima competenza giuridica, dicono la loro su crimini orrendi, contribuendo a creare nell’opinione pubblica un clima di emotività, il cui unico risultato è quello di portare l’uomo della strada a chiedere immancabilmente l’ergastolo, se non addirittura la forca, per l’indagato di turno. Poi magari l’indagato finisce assolto, talvolta in istruttoria, senza nemmeno arrivare al rinvio a giudizio. Viene proprio spontaneo dire: “per fortuna  che i processi si fanno nei tribunali e non dalla parrucchiera, nei bar o nella sala d’aspetto del medico ! ”. Fortunatamente esiste lo stato di diritto, che si preoccupa di trovare il giusto equilibrio tra i diritti del cittadino e la necessità di perseguire i comportamenti devianti, forieri di allarme sociale. Per fortuna che esiste un ordinamento giuridico che, dovendo scegliere tra il rischio di mandare assolto un colpevole e quello di condannare un innocente, corre il primo rischio, mettendo in conto gli strali dei forcaioli, che discettano di ciò che non conoscono, tra una coda alle poste ed un’attesa dell’ennesimo treno in ritardo.
Un ultimo argomento: negli ultimi tempi si è molto discusso di quanto il nostro fisco sia non solo esoso ma anche vessatorio nei confronti del contribuente. Ebbene, in forza di norme specifiche, spesso il fisco si rapporta col contribuente in questo modo: “Io sono convinto che tu hai fatto il furbo, quindi, o sei tu a dimostrarmi di essere pulito, oppure paghi. E se non paghi sappi che ti pignoro l’auto o la casa. Non solo, se vuoi impugnare gli atti con cui ti chiedo dei soldi, prima paghi e poi, se e quando vincerai il ricorso, ti renderò i soldi”. Si chiama inversione dell’onere della prova, un principio che si pone in palese contrasto con i più elementari assunti che ispirano ogni ordinamento giuridico rispettoso del cittadino. Detto in modo piano: “se mi accusi di qualcosa devi essere tu a dimostrare che sono colpevole e non io a dimostrarmi innocente”. Questa è civiltà giuridica !
Per contro, il Codice penale e la Costituzione sanciscono la non retroattività della legge penale e, nel caso di modifica delle pene per un certo reato, si deve applicare sempre la disposizione più favorevole al reo (principio del “favor rei”). Ebbene sì, il Codice penale scritto da Alfredo Rocco nel 1930, in piena epoca fascista, è più garantista del fisco repubblicano!
Magari possiamo aver tediato il lettore,  ma rimarchiamo il fatto che parlare di stato di diritto non significa avvitarsi in tecnicismi giuridici, NON E’ soltanto “roba da avvocati”. Parlare di stato di diritto significa parlare di libertà, qualcosa che, come l’aria, si dà per scontato, fino al momento in cui essa viene a mancare. Ed è allora che ci sente soffocare.

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