lunedì 22 febbraio 2016

Carme dei sepolcri imbiancati

Barattierum iura sancta sunto

All'ombra delle macchine contasoldi e dentro i forzieri,
confortato dal pianto degli inferiori, è forse il sonno
della morte men duro? Ove piú il soldo
per me alla tasca non fluisca,
bonifico pingue e gravoso
e lucenti di scintille innanzi 
a me non balleran marenghi,
nè della borsa sentirò più il Mibtel
e l'aurifera armonia che lo governa,
ne più in saccoccia danzerà il peculio
de gli inermi risparmiatori e dei pensionati,
unico sangue per la mia vita parassita
qual sia il furto dei giorni perduti
che distingua le mie ruberie
dalle infinite ladronerie che ammorban terra e cielo.
Vero è ben, Calvino! Anche la Rapina,
ultima dea, rifugge mio sarcofago: e obnubila
ogni cosa la dimenticanza delle mie grassazioni
e una forza soverchiante le cancella
di cassa in cassa; il banchiere e le sue saccocce
e le ultime sembianze e le refurtive
di terra e ciel cancella il tempo.
Ma perchè dopo di me gli inferiori
invidieranno mia cupidigia
pur consci di loro insipienza ad arraffare?
Non vivon forse loro di miseri emolumenti e
gli sarà sconosciuto il bottino
che li fa sbavar di forte scintillio
ne' le loro cervella. Aulentissima è questa
spoliazione con amorose blandizie,
pulcherrimo talento è nei bancatori; e spesso
con il soldo si copula come fosse consorte
e il soldo con noi si sbrana la terra
che lo generò e lo creò
ne' le sue viscere materne, primigenio forziere
che porgendo le sacre le cambiali consente
l'arraffar de' artigli.Dal profano 
risparmio del vulgo non resta un centesimo,      
e di cartamoneta odorosa resta
triste cenere alle moltitudini straziate.
Chi lascia eredità di poche sostanze
tristezza lascia nel conto e ne' rampolli 
e se mira dopo l'esequie a santa indulgenza
vagar sotto la grandine vede suo spirto,
tra lo scherno de' sportellisti incravattati
sbellicantisi vicino gli smorti rendiconti
della elemosiniera colletta, ma la sua fame
porta in un aldilà pavesato di carestia,
ove nè anima buona lo sfami
ne passator solingo allunghi monetina
che dalla morsa gastrica soccorra.
Pur nuova legge impone oggi il c/c
fuor da' intento caritatevole e il pane
all'uomini contende e senza pace giace 
il tuo cliente o bancatore, che a te donando 
suo sangue e sudore eresse per te 
temporale impero, con lunga privazione,
e ti profferiva alte lodi e retro linguate
e tu lo degnavi di sguardo ieratico,
che si pensava venisse dall'altissimo
cui era dolce il tintinnar de' marenghi
da secrete casseforti e da saccocce
di cui sempre fu nota l'inaccessibilità.
O bel bancatore dove sei? Non odo
frusciar la carta moneta, simulacro di mia potenza
fra queste ipoteche ov'io trincai allora
come fosse mio latte materno. E l'incasso
veniva e mi ammaliava allo sportello
che ora sospira in desolazione vuota
perchè non arraffa l'interesse ingordo
di cui fu un tempo famelico.
Forse tra plebei pagatori protestati
vagolo, dove dormì il divino soldo
solamente mio. A lui non mancai di fede
tra i portafogli ubertosi e lubrici,
svuotati a evirati risparmiatori, 
non moneta, non bene rimase,
forse l'ossa prive d'ogni polpa.
Con grasse mani il ladro felpato
arraffa concupiscente ed assetato.
Sento ravanar fra le carni putride
il derelitto cliente errabondo,
tra la spazzatura famelico cerca
muffita pagnotta che altro cibo non v'è,
contendendolo a' sorci e cani rabbiosi
sparsi per puteolenti sottopassi;
e l'immondo fetore della miseria
ho sparso dalla terra alle stelle,
alle obliate vite che cancellai. Invano,
su' tuoi risparmi, o pezzente, preghi
ne' la fetida bruma. Ahi, su le ruberie
sorgon fiori aulenti ed è di umana
rapina onorato il valore luccicante.
Dal dí che leggi e tribunali e casse
diedero a' bancatori d'esser famelici
di loro prossimo, tolser essi a' poveri
per dar a se stessi ed a' forzieri
il servo sudor in deposito fideistico,
con sublimi fregature e ben vaselinate.
Emblema de' fasti furon le sedi 
e tombe innominate a' poveracci,
che pianser sempre per la silurata
su la polve de' loro averi scomparsi,
borseggio che con diversi modi
nostra virtù e saggezza perpetrò
per lunga e sanguinosa teoria di anni.
Sempre i lingotti d'oro in magioni nostre
fecer pavimento, l'afrore della filigrana
si sparse intorno a noi, il volgo
a far sbavar; i borghi fur osannanti
e servili a nostro indirizzo: le madri
balzaron da noi con carnal dono
e apriron ardimentose lor gambe,
il rampollo a raccomandar onde 
ottenesse benevola assunzione
a fine di venal sistemazione vitalizia
nella cassa. Ma rotoli e mazzette
di feroci appetiti impregnate
perenne cupidigia inoculavan ne' cuori
ed infinita cupa brama, e ferrei forzieri
accoglievan tintinnanti zecchini.
Spolpavan bancatori monete al mendico
a rimpolpar il secreto deposito
perchè il grasso a loro crescesse
ne' le tasche; e l'ultimo conio
s'intascavan fulgente e caldo.
Sbranavan gli amici patrimoni a' pover uomini
ad impanzare i sotterranei depositi
perchè gli occhi del bancator cercan morendo
il lingotto; e l'ultimo sospiro
ei manda alla fuggente sostanza.
La masse versando magri capitali
patrimoni impinguavan le saccocce
a detrimento del popol bue; e chi man tendea
a pietire aiuto o a narrar sua disgrazia
ai bancatori un riso ironico ispirava,
qual sentimento di celeste superiorità.
Fremente ingordigia che fa grassi i pochi,
dai conti in terra straniera alle società
di comodo, ove li attira cupidigia
di crescenti incassi, ove capienti
si spalancaro le borse della razzia
che lucente fecer la trionfata cornucopia
del maggior furto e si scavò la fossa.
Ma ove dorme il peculio d'ignota origine,
e fa dan giudice al social consorzio
l'opulenza e la servilità e la vuota pompa
e illuminate immagini del diabolico sterco,
sorgon avelli e trombonesche auree croci.
Già il bancatore e la rifatta marmaglia
emblema e motore al nostro reo tempo
nelle ovattate sale hanno sepoltura
non più vivi e i ricordi unica piaggeria. A lor
morte apparecchi fetida stamberga
ova una volta la fortuna dissolva
e a roboanti pernacchie sian esposte
non monete e lingotti, ma fetenti peti
colgan loro a perenne retribuzione. 
A consolanti ricordi il pavido animo accendono
le urne de' bancatori, o Gano maganzino; e bella
e santa fanno sembrar al tapino la banca
che lo dissangua. Quando il sepolcro
vidi ove dorme il corpo del ladrone
che spolpando le tasche a' lavoratori
i sogni ne distrugge ed alla plebe svela
di che pezzenteria viva e di che stenti;
ed il sarcofago di colui che nuova grassazione
creò ovunque con dolore; e di chi sfilò
ai morti gli averi propri per ingoiarsi
più vite senza dar sentore alcuno 
onde il ricco più ricco fosse
ed il poveraccio più magro divenisse:
Me beato, gridai per le ovattate
casseforti pregne di pecunia e pel peculio
che da loro fluisce in gozzo mio!
Liete de' fondi altrui veston mie figlie
di oro zecchinissimo i lor colli,
le natiche a dimenar festanti, e le mani
empite di anelli e di diamanti
mille luci al ciel mandando.
E tu per prima, banca, lumavi lo scintillio
de' lingotti che sbranammo a' innocenti,
e le casse pubbliche e l'erario
razziammo a onta de' bisognosi,
che carità straziammo e soffocammo
ed obnubilammo con plumbeo velo,
stupro recando a' la dea Giustizia,
ma più satolli che mai sbranavamo
l'italici averi sudati, unici forse
in misere esistenze e striminzite
e l'onnipotenza nostra svettava su l'altrui destino,
immobili e titoli succhiavamo ovunque
e la patria spogliammo pure della memoria.    
Che ove la fame di incassi a' bancatori
venisse a mancar ed all'Italia pulita
grasso e benessere sano crescesse,
morrebbe il valor d'essa stessa banca. E i lingotti
smetteriano di esser divinità e legge.
Ignorati da patrio volgo vagheremmo muti
ove una volta eravi per noi reverenza
de' plebei desiosi; e poi nulla
vivente al nostro cospetto si prostrerebbe
le terga baciando; e avrem sul volto
la muffa del decadimento e la cianosi.
Co' questi demiurghi abitiam eterni: e 'l soldo
freme d'amor patrio. Eh sì! Da quelle
floride borse un dio a noi parla:
e si prelevava da' conti altrui
dopo che morte li rapì prima di noi,
lasciandoci man salva. Il barattier
che artiglia d'altri il sudato aver,
facendosi grasso di lussurioso prelievo
balenante di auree scintille rutilanti
balenanti ne' la notte ladra e faina,
grondante sangue e filigrana,
d'artistiche rapine ingoia il provento
cercando nascondiglio; e al furor de' furti
silenzi contrappone a celar il malfatto,
a danno de' innocenti e ingenui,
piangenti e confidenti e tumultuanti,
a commiserar li risparmi dispariti.
Felici noi che razziam il regno de' morti,
insaziabili ne' anni sia verdi che canuti.
E, se guidiamo il saccheggio impettiti
oltre 'l confine posto dalla decenza,
certo di noi si udrà per ogni angolo
dell'orbe terracqueo il sibilo strisciante
verso le più temerarie spoliazioni,
sopra l'ossa de' popoli tutti,
onusti di pecunia e di titoli siam sempre;
nè senno acuto nè protezione ferrea,
nulla varrà l'altrui patrimonio a salvar,
chè a mo' di ratti nella notte scura
le borse andiam a svuotar silenziosi.
E me che 'l furto e 'l poter
fan per diverse lande ir affamato,
me ad evocar li spietati arrubbamenti
al mortal tapino che fiducia mi diè.
Siediam custodi de' le refurtive
e, quando il sole con i suoi rai vi giunge,
vi meniam vanto silenzioso de' malfatti,
di nostri raggiri la terrà è piena
e si strazia per nostri rapaci intenti.
Ed oggi nel paese impecorinato
eterno splende al volgo straccione
nostro eterno fulgore a cui fummo sposi
in tempi immemori ed alla cassa sediamo
onde possiamo sempre prevaricar 
sul popolo a noi grato per il malfatto.
Però quando qualcun udì il scivolar
de' la ferrea ruvida silente supposta
alti strilli produsse, giunti sino a gli dei
che ci mandaron silente approvazione
pel mal commesso ieri, oggi e domani:
encomiati fummo per nostra cupidigia,
colmati di medaglie per nostra freddezza
e la morta pietà fu 'l nostro immortal trofeo
onde de' la ruberia si facesse bibbia.
Così spolpando affonda la nazione
e s'allarga l'olimpo della mangeria,
untuoso di ingegnose truffe e sofisticate
e sacro divien il diritto di spoliazione.
Ivi sgraffignò il bancator cortese
ultima possanza d'illustre rapace stirpe
esperta di ogni grassazione indomita,
resistente a qualunque forma di pietà;
ivi rapinò colui che il fato creò all'uopo,
il meglio fiore d'artigliati petali e taglienti, 
sempre aduso a rubar sorridendo ed
a sorrider rubando, e l'elegante furto
insegnava a' suoi sbavanti discepoli.
E rubava sospirando: Oh dio dei ladri
chi potrà dopo me tener alto il vessillo,
sapran sbranare con pari perizia e desiderio,
sapran spolpare con altrettanta freddezza?
Le carni della nazione sapran straziare
con altissima bancaria perizia e silente,
incontaminati da pietà e ritegno alcuno?
Veggo i numi tutelari de' sbranatori
perder vigore; chè dopo me nessun
potrà emular mie gesta ferali ed invisibili!
E voi, modesti miei eredi bancatori,
omuncoli incapaci a rubar persin
minima pensione a' vedove dolenti,
non siete a nulla buoni: e chi potrà
di voi ereditar mio talento irripetibile
affinchè la rapace stirpe si perpetui?
Mai degni sarete di agir in nome mio,
sciacalletti lattanti al di sotto del compito,
inetti come siete a concepir ogni raggiro, 
peregrinerete tra i poveri straccioni 
incapaci ad intender cosa si possa rubar loro.
Piangeranno i forzieri per vostra inettitudine,
in loro resterà vuoto spazio in perenne attesa
di bottini che mai saprete arraffar,
per le vie di novella e più fulgida Ilio
che non saprete mai e poi mai saccheggiar.
Satolli vi farete con pochi bocconi insipidi,
dissetati sarete di poche gocce di sangue,
quasi foste larvali zanzare anzichè sitibondi
vampiri come fummo noi d'altra genia,
con denti simili a sciabole infuocate,
sempre pronti a qualsiasi razzia 
pur di far grande la santa madre banca.
E tu, dio dei bancatori, solo lutti vivrai
pe' tuoi figli esenti da ogni spirto di rapina,
inetti a continuar l'edificazione di una patria
che solo su sangue e soldo si sa regger.