Testo di un articolo apparso sulla rivista Sei in Valle - http://www.seiinvalle.it - che mi pare di grande interesse e spunto di riflessione. L'autore non è per nulla amante di blog e social network, gli ho "estorto" il testo con una scusa e credo che non farà salti di gioia se venisse a sapere che ne ho fatto un post di un blog. I concetti che esprime mi sembrano però più attuali che mai, per questo corro il rischio dei suoi fulmini. Buona lettura!!
* * *
Chi di
noi non ha in cuor suo mandato una trucida maledizione al vigile urbano che gli
ha appioppato una multa perché ha parcheggiato dove c’è il cartello di divieto
di sosta? In quel momento pensiamo “che
bello se non esistessero il vigile urbano ed il codice della strada”.
Sbollita la grassa arrabbiatura, a mente fredda, ci rendiamo conto che la circolazione
stradale diverrebbe immediatamente difficile, pericolosa ed infine impossibile.
Divertiamoci
ora con il lessico giovanilistico e gridiamo a pieni polmoni: “non vogliamo più il codice penale, i Caramba
e la Pula, così possiamo imbrattare il sottopasso della stazione e ci rolliamo
una canna in santa pace ai giardinetti”. Anche qui, esaurita la sbruffonata
da adolescenti con l’acne, ci accorgiamo che se fosse così, ogni individuo
sarebbe, se lo volesse, libero di rubare, uccidere e stuprare senza essere
punito. La nostra società sarebbe vittima di una duplice spinta alla
disgregazione. Innanzitutto, ognuno di noi sarebbe libero di pensare “se il mio vicino ruba, uccide e stupra e non
lo puniscono, allora lo faccio pure io”, agendo poi di conseguenza. In
seconda battuta, una società incapace di tutelare coloro che sono vittima del
crimine e dei comportamenti devianti sarebbe una sorta di “giungla” dove a farla da padrone sarebbero i più forti e
prepotenti. E chi volesse giustizia dovrebbe ricorrere a vendetta e legge del
taglione, avviando interminabili e sanguinose faide.
Nessuna
società si sviluppa in armonia senza regole e senza istituzioni che le fanno rispettare,
sanzionando eventuali trasgressori. L’anarchia è un’utopia che può affascinare
a livello teorico ma è foriera, a livello pratico, di enormi turbamenti della
vita sociale. Quindi: assenza di potere
ad autorità uguale negazione di ogni forma di vivere civile.
Il
punto non è quindi “potere sì o no”
ma “uso corretto del potere”, ovvero
“stato di diritto”. Un filo rosso
lega l’evoluzione di molte società: è la creazione di regole tali da limitare
gli arbitri e gli abusi delle autorità sui cittadini. In uno stato di diritto
si crede che la libertà sia un valore supremo da tutelare e ci si munisce di
strumenti giuridici che perseguono quel fine. I pilastri giuridici sono essenzialmente
tre: la costituzione, il diritto processuale penale e le norme che disciplinano
l’operato degli organi di polizia. Ai
giorni nostri, nelle grandi democrazie, queste regole sono formalizzate,
scritte nei minimi dettagli e contenute in costituzioni formali e codici.
È però
interessante un breve excursus storico per conoscere le prime forme embrionali,
di certo imperfette ma assai importanti, di queste norme, che possiamo chiamare
“prove tecniche di stato di diritto e di
tutela delle libertà”. Il 12 giugno 1215 il re d’Inghilterra Giovanni
Senzaterra fu costretto, in cambio della rinnovata obbedienza dei suoi baroni,
ad una serie di concessioni, contenute nella “Magna Charta”. Tra i fondamentali contenuti: la garanzia, di non poter essere
imprigionati senza prima aver sostenuto un regolare processo, il principio di
proporzionalità della pena rispetto al reato commesso, il principio della legittima resistenza
all'oppressione di un governo ingiusto, l'integrità e libertà della Chiesa.
Nel
1679 il parlamento inglese emana lo Habeas Corpus Act. Si definisce “Habeas
Corpus” (in latino "che tu abbia il corpo") l'ordine
emesso da un giudice di portare un prigioniero al proprio cospetto. Tale
provvedimento giudiziario stabilisce il diritto di una persona di ricorrere al giudice
per difendersi dall'arresto illegittimo, proprio o di un altro individuo. L’Habeas Corpus è stato, ed è
tutt’oggi, un asse portante nella salvaguardia della libertà individuale contro
l'azione arbitraria dello stato. Sancisce infatti un principio fondamentale: la
limitazione della libertà personale non può basarsi solo su di un provvedimento
di polizia, vale a dire un atto amministrativo e di imperio del governo, ma
dev’essere valutata da un giudice, che può convalidare o meno il provvedimento
restrittivo. Nell’ordinamento italiano attuale il diritto di Habeas Corpus è
riconosciuto dal Codice di procedura penale (tramite gli istituti del riesame o
appello e della convalida dell'arresto) e dalla Costituzione.
Sempre
il parlamento inglese, nel 1689, approva il “Bill of rights”, senza dubbio un’architrave del sistema
costituzionale del Regno Unito. Tra l’altro, erano previsti: la libertà di parola e discussione in Parlamento, libere elezioni per il Parlamento, il divieto per il re di perseguitare i suoi sudditi per motivi religiosi. Con
il Bill of rights finalmente la storia si curva, per imboccare la strada che
trasformerà i sudditi in cittadini, rendendoli titolari di diritti e di libertà
garantiti.
Il
26 agosto del 1789, sei settimane dopo la presa della Bastiglia, viene emanata
la “Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino”, un testo giuridico che ha ispirato molte
altre costituzioni ed ha contribuito a diffondere in tutta Europa i valori
dell’89. A livello di principi supremi, si completa e consolida in modo
irreversibile la trasformazione dell’uomo comune da suddito (oggetto del
diritto) in cittadino (soggetto attivo di diritto). Per questo motivo, ancora
oggi, si parla di “magistero francese”.
In primis è solennemente enunciato il principio di uguaglianza tra tutti gli esseri umani, seguito dall'elencazione
dei diritti naturali ed
imprescrittibili dell'uomo: libertà della persona, della proprietà, della
sicurezza e resistenza all'oppressione. È poi statuito il principio di sovranità democratica, in forza del
quale "il principio di ogni
sovranità risiede essenzialmente nella Nazione". Oggi sembra
scontato, a quel tempo assai meno, in quanto i sovrani, in forza degli assunti
filosofici e giuridici dell'Ancien
Regime, regnavano per diritto divino. Il rapporto tra stato e cittadino
è ormai delineato: la legge penale non può più essere retroattiva, deve essere
determinata in modo univoco e sottratta alle interferenze del potere esecutivo.
Non solo, è stabilito l'altrettanto fondamentale principio della presunzione di
innocenza dell'imputato. Sono poi dichiarate le libertà di opinione, di
espressione e di culto, stabilendo in tal modo non solo la libertà del
cittadino ma anche la laicità ed aconfessionalità dello stato. Grande civiltà
giuridica risiede anche nel principio tale per cui tutti sono tenuti a
concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva (senza
più esenzioni dal pagamento delle imposte per il clero ed i nobili).
Fondamentale
è anche il superamento dell’antica suddivisione nei 3 Stati, garantendo a tutti i cittadini il diritto di
ricoprire cariche pubbliche.
È di lampante ed imprescindibile evidenza che i quattro
atti giuridici sopra illustrati sommariamente non sono “documenti polverosi” poiché è anche grazie ad essi se oggi abbiamo
la nostra Costituzione repubblicana e, superando i confini nazionali, la
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
Stato di diritto significa “garantismo”. Per questo, il nostro sistema giudiziario si fonda su
alcuni principi basilari, tutti a tutela di chi è sottoposto ad indagine penale.
Innanzitutto l’imputato è ritenuto innocente, e come tale va trattato, sino a
condanna definitiva.
La previsione dei tre gradi di giudizio consente di
rimediare ad eventuali errori giudiziari.
Le disposizioni che regolamentano la formazione e
l’ammissione degli elementi probatori in giudizio fanno sì che per condannare
qualcuno non solo servono le prove, ma queste devono essere raccolte con
modalità ben precise e codificate dalla legge.
Altro principio fondamentale è “in dubio pro reo”, ovvero se le prove emerse a carico dell’imputato
non dimostrano in pieno la sua colpevolezza non lo si può condannare.
La revisione del processo può essere chiesta dal
condannato se, una volta passata la sentenza in giudicato, emergono elementi a
sua totale o parziale discolpa. Per contro, non può esservi revisione a sfavore
di chi è stato prosciolto (ovvero, a fronte di un’assoluzione passata in
giudicato, non è possibile processare nuovamente e condannare l’ex imputato,
anche se emergessero pesanti prove di colpevolezza, ivi compresa la sua
confessione).
La detenzione in attesa di giudizio, comunque
disposta dal giudice in forza del principio di Habeas Corpus, è possibile solo
in determinati casi (rischio di reiterazione del reato, pericolo di fuga o possibile
inquinamento delle prove).
Garantismo è oggi una parola usata ed abusata. Chiariamolo
subito: garantismo significa che il cittadino ha una serie precisa di diritti
quando è sottoposto a procedimento penale, non che si possono contestare la
legittimità del giudice e del processo. Del resto, è la Costituzione a
stabilire che “nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito
per legge” (art. 25). Comunque, sempre a tutela dell’imputato, è presente
nell’ordinamento l’istituto della “legittima
suspicione”, in forza del quale è possibile, ove ricorrano certi
presupposti, richiedere la ricusazione del giudice od addirittura il
trasferimento del processo presso altra sede giudiziaria. Il nostro sistema
giudiziario evidenzia una serie di malfunzionamenti, cui si deve assolutamente
porre mano ma non manca certo di garantismo. Non vi è infatti alcun dubbio
circa il fatto che nell’ordinamento penale italiano siano rispettati i seguenti
requisiti: nessuna pena senza reato (cd. retributività della pena); nessun
crimine senza legge (principio di legalità); nessuna legge penale senza
necessità (principio di economia del diritto penale); nessuna necessità della
legge penale senza lesione (principio di offensività); nessuna lesione senza
azione (principio di esteriorità dell’azione penale); nessuna azione senza colpa
(principio di colpevolezza); nessuna colpa senza processo (principio di
giurisdizionalità); nessun processo senza accusa (principio accusatorio); nessuna
accusa senza prova (principio dell’onere della prova); nessuna prova senza
difesa (principio del contraddittorio).
Se la giustizia non funziona, o funziona male, è un
problema di uomini, di risorse ed organizzazione degli uffici giudiziari. Ed è
a questi aspetti che si deve porre mano, non agli strumenti giuridici. I più
autorevoli conoscitori della dottrina giuridica italiana non si stancano di
ribadire che i codici sono mirabili tanto nell’architettura quanto nel
funzionamento e non occorre porvi mano con modifiche normative estemporanee. Sono
orologi svizzeri di cui non bisogna alterare i meccanismi inserendo bulloni da
ferrovia.
Se mancasse il garantismo, i processi penali si
concluderebbero tutti con la condanna dell’imputato ed i magistrati giudicanti
si risparmierebbero ogni fatica nel motivare le sentenze, basterebbe loro infatti
un semplice “copia - incolla” della
requisitoria del pubblico ministero. Ma storia e cronaca dimostrano che non è
così.
I nostri media abbondano di notizie di cronaca
giudiziaria, spesso riferita a fatti di sangue che creano forte sconcerto
nell’opinione pubblica. Assistiamo perciò a dibattiti dove persone, del tutto
prive della benché minima competenza giuridica, dicono la loro su crimini
orrendi, contribuendo a creare nell’opinione pubblica un clima di emotività, il
cui unico risultato è quello di portare l’uomo della strada a chiedere
immancabilmente l’ergastolo, se non addirittura la forca, per l’indagato di
turno. Poi magari l’indagato finisce assolto, talvolta in istruttoria, senza
nemmeno arrivare al rinvio a giudizio. Viene proprio spontaneo dire: “per fortuna
che i processi si fanno nei tribunali e non dalla parrucchiera, nei bar
o nella sala d’aspetto del medico ! ”. Fortunatamente esiste lo stato di
diritto, che si preoccupa di trovare il giusto equilibrio tra i diritti del
cittadino e la necessità di perseguire i comportamenti devianti, forieri di allarme
sociale. Per fortuna che esiste un ordinamento giuridico che, dovendo scegliere
tra il rischio di mandare assolto un colpevole e quello di condannare un
innocente, corre il primo rischio, mettendo in conto gli strali dei forcaioli, che
discettano di ciò che non conoscono, tra una coda alle poste ed un’attesa
dell’ennesimo treno in ritardo.
Un ultimo argomento: negli ultimi tempi si è molto
discusso di quanto il nostro fisco sia non solo esoso ma anche vessatorio nei
confronti del contribuente. Ebbene, in forza di norme specifiche, spesso il
fisco si rapporta col contribuente in questo modo: “Io sono convinto che tu hai fatto il furbo, quindi, o sei tu a
dimostrarmi di essere pulito, oppure paghi. E se non paghi sappi che ti pignoro
l’auto o la casa. Non solo, se vuoi impugnare gli atti con cui ti chiedo dei soldi,
prima paghi e poi, se e quando vincerai il ricorso, ti renderò i soldi”. Si
chiama inversione dell’onere della prova, un principio che si pone in palese
contrasto con i più elementari assunti che ispirano ogni ordinamento giuridico
rispettoso del cittadino. Detto in modo piano: “se mi accusi di qualcosa devi essere tu a dimostrare che sono colpevole
e non io a dimostrarmi innocente”. Questa è civiltà giuridica !
Per contro, il Codice penale e la Costituzione sanciscono
la non retroattività della legge penale e, nel caso di modifica delle pene per
un certo reato, si deve applicare sempre la disposizione più favorevole al reo
(principio del “favor rei”). Ebbene
sì, il Codice penale scritto da Alfredo Rocco nel 1930, in piena epoca
fascista, è più garantista del fisco repubblicano!
Magari
possiamo aver tediato il lettore, ma rimarchiamo
il fatto che parlare di stato di diritto non significa avvitarsi in tecnicismi
giuridici, NON E’ soltanto “roba da
avvocati”. Parlare di stato di diritto significa parlare di libertà,
qualcosa che, come l’aria, si dà per scontato, fino al momento in cui essa
viene a mancare. Ed è allora che ci sente soffocare.